Bambini senza radici.

Eccomi cari lettori, oggi vi parlo di un libro davvero forte, straziante, un libro alla ricerca della verità. Potrei dire un thriller! E’ una storia vera, un’autobiografia, un’ inchiesta personale nella storia straziante della seconda guerra mondiale, per cercare se stessi. Ingrid scrive questo libro per testimoniare al mondo intero l’inferno che ha vissuto per colpa dei nazisti.

Ingrid, bambina tedesca stava vivendo una vita apparentemente serena , ma crescendo capiva che era come una apolide, nel puzzle della vita che stava vivendo mancava qualcosa.

Nel 1935 nella Germania nazista nasceva un progetto che avrebbe per sempre cambiato la vita di milliaia di bambini: il Progetto Lebensborn. Questo progetto è stato messo in atto da Himmler, braccio destro di Hitler. Il progetto aveva come scopo la creazione di “case per le donne incinte” che dovevano dare alla luce bambini ariani puri. I bambini dovevano essere concepiti da donne tedesche, olandesi, belghe, norvegesi ma solo con gli uomini della SS, perchè Himmler era convinto che il sangue ariano puro si trovava solo nelle vene degli uomini della SS. Questo progetto aveva come scopo finale incrementare le nascite in Germania ed eliminare le razze inferiori. Ma il lato più oscuro di questo progetto per tanti anni è stato quasi tenuto nascosto… Siccome le aspettative non si avveravano, Himmler decise di espandere il progetto e aveva ordinato che i bambini dei paesi occupati dai nazisti (parliamo sempre della seconda guerra mondiale) che passavano i test ariani (esistevano degli esperti di razza che avevano come compito di fare degli esami e test ai bambini rapiti dai paesi occupati,si analizzava il colore dei capelli, il colore degli occhi, si misurava la lunghezza del naso, e si indagava se i genitori non fossero di origini ebree) venissero sosttratti ai loro genitori in modo ingannevole e portati in Germania nelle case che facevano parte del Progetto Lebensborn. Per i bambini rapiti, una volta arrivati in queste case, iniziò il proceso di Germanizazzione.

Dal documento Caso 8 dei cosiddetti “processi secondari di Norimberga”: “Fu pianificato un rapimento su larga scala dei bambini “razzialmente pregiati” in Paesi stranieri. Questo piano aveva il duplice scopo di indebolire le nazioni nemiche e incrementare la popolazione della Germania... Durante le guerra numerosi bambini cechi, polacchi, jugoslavi, e norvegesi furono sottratti ai loro genitori e classificati in base al loro “valore razziale”.

Diventavano bambini tedeschi, con documenti falsi, e dopo alcuni mesi di germanizazzione venivano dati in affidamento a famiglie tedesche.

Ingrid era una di questi bambini rapiti. Verrà a conoscenza di questa cosa mostruosa in età adulta, e il mondo le crollerà addosso.

In questa sua autobiografia Ingrid percorre tutta la storia della Germania nazista, le conseguenze della seconda guerra mondiale, la divisone della Germania in Germania dell’Ovest e dell’Est, la caduta del muro di Berlino. Ingrid racconta un viaggio travagliato che è durato più di 10 anni alla scoperta della sua vera identità! Un libro che è davvero una fonte storica preziosa, una testimonianza! Grazie alle sue ricerche oggi si sa ancora di più sul processo segreto di Germanizazzione, grazie alle sue ricerche è riuscita a mettersi in contato con dei altri adulti una volta bambini di Lebensborn, tutti con la stessa sorte: cercare le proprie radici e convivere con la macchia e l’impronta vergognosa di Lebensborn.

Nel leggerlo sono rimasta sconvolta e scioccata dai fatti e dall’omertà che si viveva negli anni dopo la guerra in Germania per quando riguarda i crimini e i progetti mostruosi che furono messi in atto dai nazisti. Durante la lettura anche io mi sono chiesta come si può vivere con il peso di essere stato un pezzo di un progetto folle. Come si può vivere non sapendo da dove iniziano le proprie radici, quale è la propria terra?

Vi consiglio la lettura di questo libro, non vi svelo cosa ha scoperto Ingrid e da quale paese è stata rapita. Soffrirete insieme a lei passo per passo nella ricostruzione delle sue radici e della sua infanzia.

Dal libro: “L’identità è molto di più che la semplice risposta alla domanda “chi sono?”. Riguarda anche la personalità. Stavo sforzandomi di capire com’ero diventata quella che ero. Ero semplicemente il risultato dei miei primi anni di vita in una casa Lebensborn? …In altre parole, il corso della mia vita era stato programmato da Himmler? Dopotutto, il suo obiettivo era questo: noi, figli del Lebensborn, dovevamo realizzare la sua visione di una nuova e omogenea generazzione della razza padrona tedesca”.

Tatiana

Stellina

Per molti anni i miei genitori hanno avuto una fattoria abbastanza grande, con un po’ di animali. L’animale che ho amato di più era la nostra mucca Stellina. Era intelligente e tranquilla. Amavo così tanto la nostra mucca perchè amavo molto il suo latte, mamma mia che bontà! Avete mai assaggiato il latte appena munto? Non ho mai assaggiato da nessun’altra parte un latte così buono. Era caldo, quasi dolce, profumava di erba, di casa, di qualcosa di indescrivibile.

Al mattino e alla sera avevamo il latte fresco appena munto; il formaggio non mancava mai sulla nostra tavola e il burro era una vera delizia. Fare il burro non è facile, piangevo tutte le volte quando mia mamma mi assegnava questo compito: “Tatiana devi fare il burro oggi!”. Nooo, per me era una vera noia stare lì a sbattere la panna anche per un’ora per far uscire il burro. In un barattolo di vetro si metteva la panna raccolta dal latte, si metteva un tappo al barattolo e si doveva sbatterlo per un’ora ininterrottamente, o anche di più, per non parlare poi del male alle braccia che mi veniva. Solo negli ultimi minuti di quest’ora si cominciava a vedere il risultato: la panna si condensava e piano piano si formava il burro, che leccornia!

Stellina era un animale molto intelligente, quando la portavamo a pascolare, io o mio papà, le parlavamo sempre, lei girava sempre la testa verso di noi e prima di imbucare un sentiero aspettava sempre la nostra approvazione. Ricordo che mi piaceva guardarle gli occhi. Gli occhi di una mucca sono molto grandi, che trasmettono tranquillità, da piccola guardavo i suoi occhi e mi immaginavo che mi parlasse, mi piaceva accarezzarle il muso e guardala mentre beveva secchi interi di acqua. Avete mai visto una mucca bere in un minuto un secchio di 9 litri di acqua? Io si e tutte le volte rimanevo incuriosita da questa cosa; un animale che si chinava verso il secchio e in un sorso finiva tutto come nulla fosse. Forse perchè ero piccola, ma questa cosa la vedevo come un grande mistero della vita.

Solo una volta mi sono arrabbiata con Stellina, quando avevo provato a mulgerla e lei spostando la gamba mi aveva fatto cadere per terra sbattendo la testa. Oh si, quella volta ho preso davvero paura!

Tutti gli anni, verso febbraio/marzo la nostra mucca partoriva! Era sempre una gioia e una grande festa per la nostra famiglia. Siccome faceva molto freddo nella sua stalla, allestivamo sempre in una stanza in casa nostra un piccolo posticino caldo per il nuovo/a arrivato/a. Ricordo che sempre non vedevo l’ora di tornare da scuola, per poi entrare in casa e stare con il vitellino appena nato. Aveva un profumo così buono, profumo di neonato, gli davamo il latte dal biberon ed era sempre molto coccolato.

Non saprei perchè mi è venuto in mente di scrivere di questi miei ricordi, forse perchè mi fanno stare bene! Ricordo con quanta cura, impegno e attenzione i miei genitori crescevano e accudivano gli animali, ricordo che non era facile, la fatica e le preoccupazioni erano sempre all’ordine del giorno, ma quello che ti davano in cambio gli animali era così importante e meraviglioso!

Tatiana

Il gulag, visto al di qua del filo spinato.

Cosa era il gulag per quelli che erano al di qua del filo spinato, per i militari sovietici? Nella storia siamo abituati ad avere le preziose testimonianze dalle persone, dalle vittime che hanno subito la deportazione, la sofferenza e l’ingiustizia, ma sono davvero pocchissime i documenti e le testimonianze da parte di quelli che hanno avuto il ruolo di sorvegliante della tirannia. Quando ho scoperto questo libro non mi veniva da credere, capivo che avevo tra le mani un tesoro, una fonte storica importante come quando all’università maneggiavo dei libri preziosi, per un attimo ho avuto la sensazione di essere una studentessa pronta a scoprire qualcosa di nuovo.

“Dove sono capitato?” , ” Hanno tutti lo stesso sguardo sospettoso e sfuggente…Tristezza e noia. Siberia, Siberia”. Così inizia il diario di un comandante russo, Ivan.

“Diario di un guardiano del gulag” è una testimonianza eccezionale, un documento storico. E’ il diario, tenuto in segreto, di un comandante russo che aveva il compito di sorvegliare i detenuti del gulag siberiano. Ivan Cistjakov è stato traferito nell’Ottobre del 1935 da Mosca nella regione di Svobodnyj, situata in Siberia, dove si stava costruendo il secondo binario della ferovia Bajkal-Amur (la famosa transiberiana). A lui è stato affidato il comando di un plotone. Il progetto è stato chiamato BAM – un progetto di importanza militare con l’impiego di lavoro forzato. “Intorno c’è taiga… quante tragedie umane, quante vite perdute in questa parola. Si rabbrividisce solo a sentirla: taiga. La strada della Siberia, le deportazioni, le prigionie…”. Ivan, giovane comandante, istruito e con tante speranze nella vita, una volta arrivato nella fredda Siberia trova un degrado e una disperazione inimmaginabile. “Nessuno pensa che siamo esseri umani, ci conoscono solo come comandanti di plotone, tutto qui. All’occasione si ricordano che rappresentiamo il potere sovietico… Davvero la nostra vita è questo bordello? …Perduti nella taiga noi viviamo, noi costruiamo, noi proviamo emozioni, ci occupiamo di geometria…” Ivan comincia a tenere un diario dove annoterà tutto il suo dolore, tutte le sue domande sulla vita e sulla veridicità del potere staliniano.

Per Ivan il diario diventa subito tutta la sua vita e la sua salvezza. Ci sono passaggi del diario dove scrive tutta la sua sofferenza nel trovarsi lì, fuori dalla civiltà, prova pena per i detenuti (zek) e per se stesso. Aveva la responsabilità di sorvegliare gli zek che evadevano in continuazione e il lavoro della costruzione della ferovia. Si lavava una volta al mese, dormiva in una baita fredda e umida. Viveva con un unico pensiero: andarsene al più presto da lì! “Fa freddo, ho ammazzato un pidocchio, solo venti giorni fa stavo a Mosca. Vivevo. E qui? Qui non c’è niente, è spaventoso e inconcepibile. La vita appare da ora irrisoria e inutile… Ci sono gli zek al lavoro. Si guadagnano la libertà con metri cubi di terra e metri di rotaie. E io come mi guadagno la mia smobilitazione? Non mi sono lavato, non c’era acqua. E domani? Forse sarà lo stesso…”

Gli inverni siberiani sono freddi, Ivan descrive il freddo come un grande nemico, ci sono giornate che arriva anche a -45°C. “Fa freddo fuori e dentro. Anche nella mia anima è freddo e buio… Oggi non abbiamo più legna, ho le mani gelate… Per dormire mi avvolgo in due coperte, un cappotto di pelle e un pellicciotto. Questo è il vuoto, sento che io stesso sono vuoto. Tutto mi è indifferente, se qualcuno evade non andrò a cercarlo, che vada al diavolo…”, “Intanto gli zek evadono. La libertà. La libertà anche con il freddo e la fame, niente può sostituire la strada. D’altronde anche a me piacerebbe passare una giornata fuori da lagher…”. Le sue giornate passano tra domande, sofferenze, fame, freddo, voglia che arrivi la primavera. Ivan non aveva amici, non poteva averli perchè si renderà conto che i soldati arruolati erano degli analfabeti, rozzi, ignoranti e incolti, non sa con chi sfogare la sua rabbia ed i suoi dubbi: “I giorni passano e qual è il mio futuro?” , “Ogni giornata vissuta è un pezzo di vita, che si sarebbe potuto vivere e non vegetare…”.

I mesi passano e il suo stato d’animo peggiora, pensa addiritura al suicidio, scrive poesie struggenti e non crede più agli slogan staliniani. Quando legge qualche giornale sovietico come ad esempio “La stella rossa” non crede più agli articoli che descrivono l’Unione Sovietica come un “paese della scienza” : davvero un paese evoluto può lasciare i suoi militari a vivere in condizioni del genere?

Ivan Cistjakov rimarà in servizio lì nelle taighe della Siberia per due anni. Due anni vissuti al confine del mondo; troverà la forza per resistere ed andare avanti, nella natura, perchè aveva capito che contro l’orrore del BAM poteva combattere solo con la maestosa potenza della taiga, delle montagne, delle foreste. Affida al diario pensieri che all’epoca sarebbero risultati antisovietici, ma nel profondo lui capisce e sa che quella era la verità, capisce che nel sistema staliniano l’individuo non vale niente! Capisce che i lagher sono una cosa mostruosa e si sentirà più vicino ai detenuti che al sistema sovietico, era sempre più sbalordito dalle condizioni spaventose e disumane in cui versavano i detenuti, impegnati nel faticoso lavoro forzato della costruzione della ferrovia.

Tenere un simile diario era estremamente pericoloso all’epoca. Grazie a queste pagine possiamo renderci conto della vita che c’era in un gulag, delle condizioni e degli stati d’animo. Praticamente non solo i detenuti soffrivano e dovevano pagare una pena mostruosa, ma anche i militari sovietici che venivano arruolati per la sorveglianza diventavano automaticamente delle vittime di un regime totalitario.

Nel 1937 Ivan Cistjakov verrà arrestato. E’ davvero un miracolo come il suo diario non sia finito nelle mani delle spie sovietiche.

Grazie a questa sua testimonianza possiamo ancora di più capire la malvagità di un remige spaventoso, fanatico e disumano!

Quando da qualche parte sui social leggo commenti del tipo: “Deve andare in Siberia” o “Deve essere mandato ai lavori forzati in Siberia”, rabbrividisco! Non augurerei nemmeno al mio peggior nemico una mostruosità del genere. L’ignoranza di alcuni leoni da tastiera fa sempre capire quanta strada deve ancora fare l’umanita per farsi perdonare il passato!

Tatiana

Dor

C’è una parola in moldavo che in qualsiasi dizionario di un’altra lingua non si puo’ trovare: DOR.

Dor è un mondo, è uno stato d’animo, è una mancanza, un desiderio, un amore che vorresti che tornasse, lacrime, felicità, dolore, nostalgia, ricordi… quando usiamo questa parola in una frase o in un discorso, qualcosa dentro nel cuore si muove appena la si pronuncia. Dor, nella nostra cultura, dopo la parola amore, è la più usata nelle canzoni e nelle poesie.

Dor per me sono i miei nonni e i ricordi che ho di loro. I nonni materni li ho persi troppo presto, ma ricordo che ho sofferto e l’amore per loro è forte anche oggi. Quando torno a casa mi faccio sempre raccontare da mia mamma o dalle zie qualcosa su di loro. La vita non è stata buona con loro, un dolore grande li ha mangiati piano piano, anno dopo anno e alla fine le loro anime si sono lasciate andare. Oggi il loro dolore lo porto io nel mio cuore e mi sono promessa che finchè vivrò ne avrò memoria e rispetto.

Mi piace ricordare il nonno materno chiuso dentro il suo laboratorio di falegnameria, sempre indaffarato. Era un grande e rispettato falegname. Aveva radici gagauze e questa cosa mi rende orgogliosa, forse perchè mi piace pensare ed immaginare che i miei antenati fossero dei varolosi turchi con una storia ricca come leggo nei libri di storia. Il nonno odorava sempre di legno e quando andava in bicicletta attaccava delle mollette alle estremità dei pantaloni, così riusciva a pedalare meglio. La nonna aveva sempre il fazzoletto in testa e il grembiule attorno alla vita. Cucinava una minestra con fagioli e barbabietola di una bontà unica (la chiamavo sempre minestra rossa), succede a volte che nell’aria sento il profumo di quella minestra e mi piace pensare che è lei, la nonna, vicino a me.

I miei nonni paterni erano buoni e cari, amavo molto da piccola andare a trovarli. La nonna aveva un sorriso contaggioso, rideva sempre di gusto e parlava sempre dolcemente a noi nipoti. Amava molto la chiesa, conosceva ogni preghiera a memoria, e in chiesa aveva il suo posto assegnato, non si perdeva nessuna quaresima: con rispetto e devozione seguiva ogni regola. Con il nonno aveva un rapporto speciale, si vedeva che si amavano e rispettavano. Il nonno le parlava sempre con dolcezza. Lui per tutta la vita ha avuto un cavallo con la carrozza, e com’era orgoglioso ogni volta che ci saliva! Quando ho perso prima la nonna e poi dopo qualche anno il nonno, ero lontana milliaia di km. Ai funerali non sono potuta andare… Arriverà il momento in cui mi potrò mai perdonare questa cosa? Penso mai!

Mi fa sentire bene ricordare i nonni, mi fa sentire bene tenere sempre vive le mie radici. E in fondo la parola Dor mi fa sentire a casa.

Pensavo e ripensavo quale mia foto poter allegare a questo articolo.

Alla fine ho scelto questa foto scattata nel 2016 da qualche parte nei campi del mio paesino. Questo è un tipico pozzo moldavo, detto anche “cumpana”. I nonni paterni ne avevano uno uguale nel loro giardino, ero sempre attratta da quel pozzo: mi piaceva il rumore che faceva il secchio vuoto appena toccava l’acqua in fondo al pozzo e mi piaceva il movimento delle braccia che si doveva fare per tirare su il secchio pieno d’acqua.

Anche i nonni materni avevono un pozzo nel loro giardino, ma fatto in modo diverso. Vicino al pozzo c’era un albero di mela cotogna. Aveva un profumo incredibile quell’albero! Ma ancora più profumato era il succo che faceva la mia nonna con i suoi frutti!

Tatiana

Cos’è la paura?

Oggi voglio aprire una confettura, una di quelle che è sempre in fondo alla dispensa e non si ha mai il corraggio di aprire perchè sappiamo che ci farà stare male. Ma io la apro comunque e piano piano mi riempirò di corraggio per affrontare tutte le sue parole.

Mi è capitato in questi ultimi giorni di pensare alla paura. Che cos’è la paura per ognuno di noi? Anche se siamo persone adulte, ognuno vive la sua vita nel miglior modo possibile, ma arriva la notte e prima di chiudere gli occhi pensiamo… è proprio questo che ci frega! L’uomo pensa, si intreccia nei pensieri più profondi e si rende conto che dietro ad un angolo nascosto della sua anima c’è la paura, sta lì zitta in silenzio e aspetta. Aspetta una nostra mossa sbagliata, un nostro pensiero, aspetta la giornata più dura per noi, per uscire fuori e colpire. Ma poi la notte passa e di giorno quasi non ci ricordiamo più dei pensieri fatti la notte prima.

Abbiamo paura di tante cose. Ci sono paure bianche e altre nere. Quelle bianche sono innocue, ti fanno quasi sorridere quando si fanno vedere davanti agli occhi: paura al mattino di svegliare la persona cara con un rumore forte, paura che la pizza non lieviti bene o paura che il proprio bimbo non riesca mai ad imparare ad andare in bici senza le rotelle, paura di non trovare in un negozio una cosa che si desidera tanto, paura del primo bacio, paura di un ago…

E poi un giorno ti svegli e vedi il sole fuori, i bambini che sorridono, la TV che trasmette il solito film, l’aroma del caffè nell’aria. Tutto sembra normale, è la quotidianità e la vivi. Poi arriva un sms, una telefonata, tu rispondi ed ecco… la paura ha trovato il momento giusto per saltare fuori dal suo angolo segreto ed invadere ogni parte del tuo corpo. E tutta quella quotidianità che fino ad un minuto fà ti sembrava prevedibile adesso è lontana anni luce. Anche se siamo persone adulte, una brutta notizia ci fa paura. Ci mette in una situazione dove il corpo non risponde alla ragione. Questa paura ha il colore nero, il nero che invade gli occhi, ti fa tremare, la bocca non riesce a dire nemmeno una parola.

La debolezza dell’attimo ci fa capire quanto siamo fragili: possiamo avere case belle, possiamo avere un bel lavoro, possiamo essere i più forti del mondo ma quando la paura per una persona cara ti imprigiona l’anima diventiamo piccoli, diventiamo dei bambini che hanno bisogno della coccola della mamma prima di addormentarsi.

Ho incontrato persone forti sulla mia strada e mi sono sempre chiesta in quale angolo della loro casa riescono a nascondere il viso tra le mani e far uscire fuori la fragilità? Perchè la paura ha un nemico: le lacrime. Far uscire le lacrime che bagnano il viso e lavano l’anima fa stare bene. Alla fine del pianto la paura perde potenza, piano piano si riesce a trovare la ragione, si cominciano a trovare risposte e soluzioni. E nel soccorso arriva la fede (in qualsisasi forma essa sia), arriva e ci salva, ci ridà speranza!

Tatiana

Il pane dell’infanzia

Nella mia Confettura Di Parole non potevo non raccontarvi della tradizione della mia famiglia di come si cuoceva il pane in casa.

Il pane si preparava rigorosamente di sabato, tutta la giornata ruotava intorno a quell’evento che iniziava al mattino prestissimo verso le 4-5 e finiva nel tardo pomeriggio, quasi all’ora di cena.

Ogni famiglia aveva un forno in casa. I forni erano fatti con dei mattoni e argilla, erano lunghi 2 metri e larghi poco più di un metro. Il nostro forno si trovava in cucina. D’inverno la cucina diventava la mia stanza peferita: quando la mamma preparava il pane, faceva talmente caldo che si stava in maniche corte e la cucina odorava di lievito madre.

Era una giornata molto impegnativa, si lavorava tanto. Quando la mamma preparava l’impasto era sempre molto concentrata. Ci diceva di fare i bravi e di non farla arrabbiare con i nostri capricci, perchè il pane non doveva essere preparato con il cuore arrabbiato ma con un cuore sereno. Prima di lasciare riposare l’impasto diceva una preghiera e vi faceva sopra il segno della croce. Lo copriva bene, con due o tre coperte e aveva sempre cura che la porta e le finestre della stanza dove riposava l’impasto fossero sempre chiuse bene: non si dovevano creare spifferi o entrare dell’aria fredda.

Quando le forme con dentro l’impasto del pane venivano messe nel forno era un momento di massima concentrazione, tutto il mondo si fermava in quei movimenti lenti, la mamma diceva sempre la stessa frase: “Adesso deve lievitare e dorare bene”.

Poi la grande festa era quando il pane veniva tirato fuori dal forno! Gli occhi della mamma erano sempre contenti e le guance rosse; adesso che il pane era pronto poteva tirare un sospiro di sollievo. Da una infornata uscivano 10 pani, rotondi, profumati, dorati. In Moldova nelle canzoni e nelle poesie si dice che il viso della mamma assomigli al pane, ed è vero! La sua morbidezza e bontà si può paragonare solo ad una mamma!

Da piccola la mia merenda preferita era il pane con sopra la marmellata, di prugne, fatta in casa.

Al mattino, prima di andare a scuola, facevo il mio bel panino e poi lo arrotolavo in un pezzo di giornale. Se ci penso bene, solo ora mi rendo conto dell’importanza di quel gesto. Avvolgevo in quel pezzo di giornale un pezzo del cuore di mia mamma, di quel suo viso bello e morbido.

Tatiana.

Una fotografia… un luogo

Mi piace questa fotografia, non so spiegare il perchè… forse per il posto. Nel mio paese dove sono nata c’è il monastero di San Nicola (Sfintul Nicolae). Sono anni che stanno costruendo la chiesa (solo grazie alle offerte).

Il monastero si trova fuori paese, un po’ lontano, perso nei campi e colline. Mi piaceva quell’estate prendere la macchina e girare per i campi. Quando giro per quelle stradine non troppo larghe, piene di polvere devo sempre avere i vetri della macchina su, se no la polvere invade tutto e mi trovo con una nuvola di nebbia davanti agli occhi e l’interno della macchina coperto di un strato grigio di polvere antipatica. Sapete quale è il suono dei campi in estate? Nessun suono, ti senti un minuscolo punto in tutta quella terra fertile, in lontanaza vedi dei trattori che lavorano la terra e senti il loro eco. Ogni tanto senti la potenza del vento che muove gli alberi, il grano, i vigneti, i girasoli. Se guardi attentamente sembra che la natura si muove come delle onde del mare, ogni tanto qualche nuvola fa delle chiazze più scure per terra e si crea un gioco bizzaro tra il vento che riconcorre quell’ ombra.

Amavo fare la strada che portava al monastero, ogni tanto ci andavo per accendere una candela. Appena scendevo dalla macchina mi sentivo molto bene, come se la terra su cui avevo messo i miei piedi mi accarezzasse. All’ingresso ci sono dei cani, al guinzaglio, che ti abbaiano per metterti in guardia, ma fanno solo il loro dovere di proteggere il luogo.

Sembrava che anche l’aria era diversa, si respirava tranquillità. Ho incontrato qualche monaca, mi guardavano e mi sorridevano con gli occhi facendomi un cenno leggero con la testa come per dire: ” Benvenuta cara!”. Ho visto un crocefisso grande e dei fiori che facevano una corona per terra in torno a lui; pian piano che esploravo il luogo sentivo un profumo forte di latte, formaggio… ah già le monache hanno la loro piccola fattoria.

Ed ecco che mi sono trovata davanti una chiesa che è ancora un cantiere. Ho visto un ragazzo che portava dell’acqua fresca dal pozzo con due secchi. Dove avrà portato quell’acqua?

Mi piaceva quella scena, ho fatto delle fotografie, ho acceso qualche candela. Altre volte quell’estate sono tornata lì, mi sentivo accolta, la preghiera mi avvolgeva sempre e mi sentivo in pace.

Ci sono luoghi che ti entrano nel cuore, così ? Così semplicemente…

E tu amico lettore del mio blog, hai avuto mai la sensazione che un luogo ti appartenesse, dove ti sei sentito in pace con il mondo, dove la terrà l’hai sentita tua?

Alla prossima, Tatiana.