È lì come una fortezza, in piedi dritta mai una piega o un minimo cedimento.
È lì fiera, solida, calda, ospitale e bella da morire! E non invechia mai!
La mia Casa Natale!
È paziente e non chiede mai. Tutte le volte quando torniamo da lei si fa trovare con la sua veste più bella : l’amore! I cancelli si aprono e in un secondo appena mettiamo i piedi nel suo giardino ci sentiamo al sicuro, come se non ci fossimo mai andata da lì. Lei non chiede mai, ci abbraccia e ci fa sentire di nuovo bambini che le correvamo intorno anni fa. Chissà come si sentirà sola quando non ci siamo, chissà come riesce a colmare il vuoto che lasciamo dopo di noi, chissà quante lacrime avrà dovuto asciugare dagli occhi dei nostri genitori…
Amo sentire il vento quando soffia e fa smuovere tutti i alberi che la circondano, tutto si muove, l’aria cambia, i profumi si mescolano e lei è lì ferma sicura, sorridente e forte pronta ad aprire le sue porte per tenerci al sicuro.
Amo sentirla di notte, perché le notti sono buie da noi. Il cielo si riempie di puntini luminosi: le stelle e intorno non si vede assolutamente nulla. Il silenzio avvolge assolutamente ogni parte e l’unica cosa che rompe questo mistero è il abbaiare dei cani.
Amo annusarla quando si riempie dei mille profumi deliziosi.
Amo fotografarla sempre, non mi stancherei mai.
Amo godermela quando torno, ogni angolo, ogni finestra, ogni punto…
Amo curarla e rispettarla…
Amo i ricordi che mi legano a lei che ci ha visto crescere e prendere il volo.
Amo pensarla quando ascolto qualcosa di Abel Korzeniowski.
Tîka* mi guarda con la coda dell’occhio, sento che mi sta osservando, so già che anche con il suo osservare di nascosto mi da degli insegnamenti.
-Vedi Vasile il legno lo devi comandare te, lo devi stringere forte tra le mani quando lo metti sul banco-sega. Il legno deve sapere chi comanda, se ti trova debole o in un momento di distrazione allora si ribella, le schegge ti si infilzano dritte nella carne e la battaglia l’hai persa te.
Poi si china verso il pezzo grosso di legno che ha sul banco e comincia a levigarlo. Sta facendo una porta d’ingresso per una casa. So che uscirà un bel lavoro, tîka sa fare bene il suo lavoro. Fa il falegname praticamente da quando era ragazzino e anche suo padre faceva il falegname. Mi piace stare qui nel suo laboratorio, mi sento al sicuro qui. Sembra quasi un rifugio dal mondo intero, il soffito non è alto e l’unica finestra che c’è è piccola e il pavimento è cosparso di segatura che arriva quasi sopra alle cavilie; se ci penso bene non ho mai visto il pavimento del suo laboratorio pulito. Ma mi piace molto così, è il mio asso nella manica, quando giocherò a nascondino con i miei amici Andrii e Kolea, mi nasconderò in mezzo a tutta questa segatura, voglio vedere se mi troveranno!
Sulle mura sono appesi vari attrezzi, trapani di varie misure, martelli, pinze, morse, seghe, pialle. Non posso toccare qualcosa senza il suo permesso, tîka dice sempre che per un vero uomo, le dita della mano sono importanti e senza il suo permesso meglio tenere le mani in tasca.
-A cosa pensi, Vasile?
-Pensavo… ma io diventerò falegname come te?
-Tu diventerai chi vuoi! Al giorno d’oggi tutti vogliono entrare nel partito e vivere di slogan, che stupidi! Non sanno contare neanche fino a 10 ma pretendono di sapere come si lavora, che vergogna! Io non mi lascio intimorire dalle loro parole, io conosco bene il mio lavoro, conosco bene la mia testa e le mie mani, e quando unisco queste due forze insieme nessun partito del mondo mi può fermare! Vedi Vasilica, la gente viene da me per chiedere aiuto per costruire le loro case, io non dico mai di no, perchè la casa è una cosa importante, vado, guardo il terreno, prendo le misure, conto, poi scelgo il legno, faccio i miei calcoli di tutte le finestre e porte che ha bisogno quella casa, delle travi per il tetto e tutto lo faccio con queste mani, con questa testa, con gli occhi e con questa matita! Ed ecco che tira fuori da dietro l’orecchio la sua matita, mi son sempre chiesto come fa a non cadere mai, ovunque tîka vada la matita è lì, dietro l’orecchio come un’amica fidata pronta ad esserci in caso di necessità.
-Tu Vasilica non fidarti mai di quelli del kolhoz, tu cerca sempre la tua di strada! Per ora pensa ad imparare bene i numeri e tutto quello che ci sta nei libri e a far pascolare bene la mucca, perché anche questo non è da tutti.
Il vento della sera soffia dolcemente, io continuo a guardarlo lavorare, il rumore dei suoi strumenti è davvero assordante ma in quei rumori, come mi ha insegnato tîka, sento la voce di una casa che presto prenderà forma.
La mamma ci sta chiamando per la cena, tîka spegne i macchinari, si mette il cappello sulla testa e mi guarda dicendo:
-Andiamo figliolo, ho una fame tremenda! Chissà oggi il borsce con cosa ce lo ha preparato la mamma?! e sorride facendomi l’occhiolino. Nell’uscire accarezza ancora una volta la tavola di legno che piano piano prenderà la forma di una porta e spegne la luce!
È una serata serena, nell’aria sento il profumo del borsce della mamma e l’odore del legno appena lavorato. Sulla strada passa ancora qualche vicino con passo lento che porta a casa la mucca dal pascolo, i cani in lontananza abbaiano e io penso che da grande farò proprio il falegname, avrò la mia matita fidata dietro l’orecchio, un cappello in testa e delle mani giganti proprio come tîka, per poter far capire al legno chi comanda.
Tika* – parola usata in dialetto del Sud della Moldova, per chiamare il padre.
Racconto dedicato a mio zio Vasile, che non ho mai conosciuto, ma è sempre nel mio cuore.
Gli anni ’90 cosa sono stati per una bambina nata in un piccolo paesino in Moldova?
Ero una bambina di 6 anni quando sono arrivati gli anni ’90, non capivo la novità e la svolta che prendevano le cose nel mio paese, ma da come si viveva giorno dopo giorno, anche una bimba che andava alle elementari capiva la pensatezza della realtà.
Nell’agosto del ’91 la Moldova dichiarava la sua indipendenza, finalmente libera dalla bocca avida e mostruosa dell’URSS. La Moldova ha vissuto per 47 anni nell’ombra dell’URSS. Quando abbiamo conquistato la nostra indipendenza, la felicità e la liberazione erano grandi, si sognava un futuro libero, prospero e pacifico.
L’URSS ha reso il mio paese come un essere non vedente, per noi le cose più belle erano quelle sovietiche, i cibi più buoni quelli sovietici, la vita più bella era la vita sovietica in un kolhoz, il paese più bello era la grande URSS. Non sapevamo come si viveva negli paesi, oltre i confini sovietici. Quando l’indipendenza è stata conquistata, piano piano tutto quello che si poteva vendere e prendere è stato privatizzato. I rubli russi erano caduti e con l’arrivo della nuova moneta, quasi tutta la popolazione è rimasta senza risparmi. In quel momento è cominciato il declino!
Il nuovo governo era incapace di alzare in piedi la nuova Repubblica Moldova, ha cominciato a rubare (beh, lo facevano tutti in tutti i settori, tutti erano affamati di soldi e stufi della povertà). Il paese è entrato in una crisi mai vissuta prima.
Maledetti anni ’90…
Negli anni 1995/96 la crisi divenne ormai irreversibile. Ero bambina, ma capivo benissimo tutto, e sulle mie spalle fragili da bambina mi pesava tutto. La corrente elettrica era staccata in tutti i paesini: avevamo corrente elettrica 2 ore al giorno; l’acqua al rubinetto non esisteva più, il riscaldamento d’inverno negli edifici pubblici era un miraggio. D’inverno quando andavamo a scuola ci portavamo dietro un cuscino o una coperta da mettere sulla sedia gelida nella nostra classe. Si studiava imbacuccati. La nostra scuola era un edificio grande e bello, con un giardino sempre immacolato. In inverno però diventava un edificio trappola, troppo freddo e invivibile. In alcuni inverni delle classi furono traferite in aule dell’asilo, perché venivano un po’ riscaldate ed almeno si poteva togliere il giubbino.
Maledetti anni ’90…
Siccome non c’era mai la corrente elettrica i compiti a casa si facevano con le lampade alimentate a gas. La cena la facevamo con la lampada sul tavolo, in quei momenti la vita fuori dal buio, dipendeva dalla luce che emanavano quelle lampade.
Maledetti anni ’90…
Negli anni ’90 gli uomini andavano a cercare lavoro in Russia, oppure a Odessa (la cosiddetta zarabotka). Famiglie divise per mesi interi. Poi dagli anni 2000 hanno cominciato anche le donne ad andare nei paesi lontani a cercare lavoro: in Italia, Israele (la richiesta di lavoro per le donne in questi paesi era veramente molta). Da un giorno all’altro il nostro paese rimase senza mamme, donne, maestre, dottoresse, nonne… Tutti cercavano la felicità, tutti volevano uscire dalla povertà e l’unica via d’uscita era andarsene. Le donne, le mamme, le sorelle se ne andavano e chi rimaneva a casa soffriva. Non esisteva una famiglia nei paesini dove una donna di casa non fosse all’estero. Piano piano le feste non erano più le stesse: il Natale non era più gioioso, i compleanni erano tristi e le lacrime erano tante, perché mancava o la mamma o la sorella o la nonna.
Sono cresciuta anche io con il grande desiderio che un giorno me ne sarei andata a cercare la felicità.
Le mie spalle da bambina vissuta negli anni ’90 avevano solo un desiderio: di scrollarsi di dosso la sofferenza di quegli anni.
Amo molto il mio paese, la mia terra. Siamo davvero un popolo con un cuore grande, abbiamo tradizioni e fede nel cuore e non riesco ancora a perdonare chi ha fatto così tanto soffrire la mia bella terra. Tutto è cominciato da un regime fanatico che ha seminato solo povertà e ignoranza. Abbiamo pagato e stiamo pagando tutt’ora le conseguenze del regime sovietico. Sono ormai 30 anni che stiamo pagando a caro prezzo la grande russificazione che abbiamo vissuto!
Ogni giorno mi convinco sempre di più che la libertà è sacra, che una persona informata non può essere manipolata, che non si deve permettere a nessuno di calpestare la propria vita e aspirazioni!
Oggi quando sento la frase: “I soldi non fanno la felicità”, penso: “Allora non avete vissuto negli anni ’90 in Moldova…”.
Eccomi cari lettori, oggi vi parlo di un libro davvero forte, straziante, un libro alla ricerca della verità. Potrei dire un thriller! E’ una storia vera, un’autobiografia, un’ inchiesta personale nella storia straziante della seconda guerra mondiale, per cercare se stessi. Ingrid scrive questo libro per testimoniare al mondo intero l’inferno che ha vissuto per colpa dei nazisti.
Ingrid, bambina tedesca stava vivendo una vita apparentemente serena , ma crescendo capiva che era come una apolide, nel puzzle della vita che stava vivendo mancava qualcosa.
Nel 1935 nella Germania nazista nasceva un progetto che avrebbe per sempre cambiato la vita di milliaia di bambini: il Progetto Lebensborn. Questo progetto è stato messo in atto da Himmler, braccio destro di Hitler. Il progetto aveva come scopo la creazione di “case per le donne incinte” che dovevano dare alla luce bambini ariani puri. I bambini dovevano essere concepiti da donne tedesche, olandesi, belghe, norvegesi ma solo con gli uomini della SS, perchè Himmler era convinto che il sangue ariano puro si trovava solo nelle vene degli uomini della SS. Questo progetto aveva come scopo finale incrementare le nascite in Germania ed eliminare le razze inferiori. Ma il lato più oscuro di questo progetto per tanti anni è stato quasi tenuto nascosto… Siccome le aspettative non si avveravano, Himmler decise di espandere il progetto e aveva ordinato che i bambini dei paesi occupati dai nazisti (parliamo sempre della seconda guerra mondiale) che passavano i test ariani (esistevano degli esperti di razza che avevano come compito di fare degli esami e test ai bambini rapiti dai paesi occupati,si analizzava il colore dei capelli, il colore degli occhi, si misurava la lunghezza del naso, e si indagava se i genitori non fossero di origini ebree) venissero sosttratti ai loro genitori in modo ingannevole e portati in Germania nelle case che facevano parte del Progetto Lebensborn. Per i bambini rapiti, una volta arrivati in queste case, iniziò il proceso di Germanizazzione.
Dal documento Caso 8 dei cosiddetti “processi secondari di Norimberga”: “Fu pianificato un rapimento su larga scala dei bambini “razzialmente pregiati” in Paesi stranieri. Questo piano aveva il duplice scopo di indebolire le nazioni nemiche e incrementare la popolazione della Germania... Durante le guerra numerosi bambini cechi, polacchi, jugoslavi, e norvegesi furono sottratti ai loro genitori e classificati in base al loro “valore razziale”.
Diventavano bambini tedeschi, con documenti falsi, e dopo alcuni mesi di germanizazzione venivano dati in affidamento a famiglie tedesche.
Ingrid era una di questi bambini rapiti. Verrà a conoscenza di questa cosa mostruosa in età adulta, e il mondo le crollerà addosso.
In questa sua autobiografia Ingrid percorre tutta la storia della Germania nazista, le conseguenze della seconda guerra mondiale, la divisone della Germania in Germania dell’Ovest e dell’Est, la caduta del muro di Berlino. Ingrid racconta un viaggio travagliato che è durato più di 10 anni alla scoperta della sua vera identità! Un libro che è davvero una fonte storica preziosa, una testimonianza! Grazie alle sue ricerche oggi si sa ancora di più sul processo segreto di Germanizazzione, grazie alle sue ricerche è riuscita a mettersi in contato con dei altri adulti una volta bambini di Lebensborn, tutti con la stessa sorte: cercare le proprie radici e convivere con la macchia e l’impronta vergognosa di Lebensborn.
Nel leggerlo sono rimasta sconvolta e scioccata dai fatti e dall’omertà che si viveva negli anni dopo la guerra in Germania per quando riguarda i crimini e i progetti mostruosi che furono messi in atto dai nazisti. Durante la lettura anche io mi sono chiesta come si può vivere con il peso di essere stato un pezzo di un progetto folle. Come si può vivere non sapendo da dove iniziano le proprie radici, quale è la propria terra?
Vi consiglio la lettura di questo libro, non vi svelo cosa ha scoperto Ingrid e da quale paese è stata rapita. Soffrirete insieme a lei passo per passo nella ricostruzione delle sue radici e della sua infanzia.
Dal libro: “L’identità è molto di più che la semplice risposta alla domanda “chi sono?”. Riguarda anche la personalità. Stavo sforzandomi di capire com’ero diventata quella che ero. Ero semplicemente il risultato dei miei primi anni di vita in una casa Lebensborn? …In altre parole, il corso della mia vita era stato programmato da Himmler? Dopotutto, il suo obiettivo era questo: noi, figli del Lebensborn, dovevamo realizzare la sua visione di una nuova e omogenea generazzione della razza padrona tedesca”.
Per molti anni i miei genitori hanno avuto una fattoria abbastanza grande, con un po’ di animali. L’animale che ho amato di più era la nostra mucca Stellina. Era intelligente e tranquilla. Amavo così tanto la nostra mucca perchè amavo molto il suo latte, mamma mia che bontà! Avete mai assaggiato il latte appena munto? Non ho mai assaggiato da nessun’altra parte un latte così buono. Era caldo, quasi dolce, profumava di erba, di casa, di qualcosa di indescrivibile.
Al mattino e alla sera avevamo il latte fresco appena munto; il formaggio non mancava mai sulla nostra tavola e il burro era una vera delizia. Fare il burro non è facile, piangevo tutte le volte quando mia mamma mi assegnava questo compito: “Tatiana devi fare il burro oggi!”. Nooo, per me era una vera noia stare lì a sbattere la panna anche per un’ora per far uscire il burro. In un barattolo di vetro si metteva la panna raccolta dal latte, si metteva un tappo al barattolo e si doveva sbatterlo per un’ora ininterrottamente, o anche di più, per non parlare poi del male alle braccia che mi veniva. Solo negli ultimi minuti di quest’ora si cominciava a vedere il risultato: la panna si condensava e piano piano si formava il burro, che leccornia!
Stellina era un animale molto intelligente, quando la portavamo a pascolare, io o mio papà, le parlavamo sempre, lei girava sempre la testa verso di noi e prima di imbucare un sentiero aspettava sempre la nostra approvazione. Ricordo che mi piaceva guardarle gli occhi. Gli occhi di una mucca sono molto grandi, che trasmettono tranquillità, da piccola guardavo i suoi occhi e mi immaginavo che mi parlasse, mi piaceva accarezzarle il muso e guardala mentre beveva secchi interi di acqua. Avete mai visto una mucca bere in un minuto un secchio di 9 litri di acqua? Io si e tutte le volte rimanevo incuriosita da questa cosa; un animale che si chinava verso il secchio e in un sorso finiva tutto come nulla fosse. Forse perchè ero piccola, ma questa cosa la vedevo come un grande mistero della vita.
Solo una volta mi sono arrabbiata con Stellina, quando avevo provato a mulgerla e lei spostando la gamba mi aveva fatto cadere per terra sbattendo la testa. Oh si, quella volta ho preso davvero paura!
Tutti gli anni, verso febbraio/marzo la nostra mucca partoriva! Era sempre una gioia e una grande festa per la nostra famiglia. Siccome faceva molto freddo nella sua stalla, allestivamo sempre in una stanza in casa nostra un piccolo posticino caldo per il nuovo/a arrivato/a. Ricordo che sempre non vedevo l’ora di tornare da scuola, per poi entrare in casa e stare con il vitellino appena nato. Aveva un profumo così buono, profumo di neonato, gli davamo il latte dal biberon ed era sempre molto coccolato.
Non saprei perchè mi è venuto in mente di scrivere di questi miei ricordi, forse perchè mi fanno stare bene! Ricordo con quanta cura, impegno e attenzione i miei genitori crescevano e accudivano gli animali, ricordo che non era facile, la fatica e le preoccupazioni erano sempre all’ordine del giorno, ma quello che ti davano in cambio gli animali era così importante e meraviglioso!
Cosa era il gulag per quelli che erano al di qua del filo spinato, per i militari sovietici? Nella storia siamo abituati ad avere le preziose testimonianze dalle persone, dalle vittime che hanno subito la deportazione, la sofferenza e l’ingiustizia, ma sono davvero pocchissime i documenti e le testimonianze da parte di quelli che hanno avuto il ruolo di sorvegliante della tirannia. Quando ho scoperto questo libro non mi veniva da credere, capivo che avevo tra le mani un tesoro, una fonte storica importante come quando all’università maneggiavo dei libri preziosi, per un attimo ho avuto la sensazione di essere una studentessa pronta a scoprire qualcosa di nuovo.
“Dove sono capitato?” , ” Hanno tutti lo stesso sguardo sospettoso e sfuggente…Tristezza e noia. Siberia, Siberia”. Così inizia il diario di un comandante russo, Ivan.
“Diario di un guardiano del gulag” è una testimonianza eccezionale, un documento storico. E’ il diario, tenuto in segreto, di un comandante russo che aveva il compito di sorvegliare i detenuti del gulag siberiano. Ivan Cistjakov è stato traferito nell’Ottobre del 1935 da Mosca nella regione di Svobodnyj, situata in Siberia, dove si stava costruendo il secondo binario della ferovia Bajkal-Amur (la famosa transiberiana). A lui è stato affidato il comando di un plotone. Il progetto è stato chiamato BAM – un progetto di importanza militare con l’impiego di lavoro forzato. “Intorno c’è taiga… quante tragedie umane, quante vite perdute in questa parola. Si rabbrividisce solo a sentirla: taiga. La strada della Siberia, le deportazioni, le prigionie…”. Ivan, giovane comandante, istruito e con tante speranze nella vita, una volta arrivato nella fredda Siberia trova un degrado e una disperazione inimmaginabile. “Nessuno pensa che siamo esseri umani, ci conoscono solo come comandanti di plotone, tutto qui. All’occasione si ricordano che rappresentiamo il potere sovietico… Davvero la nostra vita è questo bordello? …Perduti nella taiga noi viviamo, noi costruiamo, noi proviamo emozioni, ci occupiamo di geometria…” Ivan comincia a tenere un diario dove annoterà tutto il suo dolore, tutte le sue domande sulla vita e sulla veridicità del potere staliniano.
Per Ivan il diario diventa subito tutta la sua vita e la sua salvezza. Ci sono passaggi del diario dove scrive tutta la sua sofferenza nel trovarsi lì, fuori dalla civiltà, prova pena per i detenuti (zek) e per se stesso. Aveva la responsabilità di sorvegliare gli zek che evadevano in continuazione e il lavoro della costruzione della ferovia. Si lavava una volta al mese, dormiva in una baita fredda e umida. Viveva con un unico pensiero: andarsene al più presto da lì! “Fa freddo, ho ammazzato un pidocchio, solo venti giorni fa stavo a Mosca. Vivevo. E qui? Qui non c’è niente, è spaventoso e inconcepibile. La vita appare da ora irrisoria e inutile… Ci sono gli zek al lavoro. Si guadagnano la libertà con metri cubi di terra e metri di rotaie. E io come mi guadagno la mia smobilitazione? Non mi sono lavato, non c’era acqua. E domani? Forse sarà lo stesso…”
Gli inverni siberiani sono freddi, Ivan descrive il freddo come un grande nemico, ci sono giornate che arriva anche a -45°C. “Fa freddo fuori e dentro. Anche nella mia anima è freddo e buio… Oggi non abbiamo più legna, ho le mani gelate… Per dormire mi avvolgo in due coperte, un cappotto di pelle e un pellicciotto. Questo è il vuoto, sento che io stesso sono vuoto. Tutto mi è indifferente, se qualcuno evade non andrò a cercarlo, che vada al diavolo…”, “Intanto gli zek evadono. La libertà. La libertà anche con il freddo e la fame, niente può sostituire la strada. D’altronde anche a me piacerebbe passare una giornata fuori da lagher…”. Le sue giornate passano tra domande, sofferenze, fame, freddo, voglia che arrivi la primavera. Ivan non aveva amici, non poteva averli perchè si renderà conto che i soldati arruolati erano degli analfabeti, rozzi, ignoranti e incolti, non sa con chi sfogare la sua rabbia ed i suoi dubbi: “I giorni passano e qual è il mio futuro?” , “Ogni giornata vissuta è un pezzo di vita, che si sarebbe potuto vivere e non vegetare…”.
I mesi passano e il suo stato d’animo peggiora, pensa addiritura al suicidio, scrive poesie struggenti e non crede più agli slogan staliniani. Quando legge qualche giornale sovietico come ad esempio “La stella rossa” non crede più agli articoli che descrivono l’Unione Sovietica come un “paese della scienza” : davvero un paese evoluto può lasciare i suoi militari a vivere in condizioni del genere?
Ivan Cistjakov rimarà in servizio lì nelle taighe della Siberia per due anni. Due anni vissuti al confine del mondo; troverà la forza per resistere ed andare avanti, nella natura, perchè aveva capito che contro l’orrore del BAM poteva combattere solo con la maestosa potenza della taiga, delle montagne, delle foreste. Affida al diario pensieri che all’epoca sarebbero risultati antisovietici, ma nel profondo lui capisce e sa che quella era la verità, capisce che nel sistema staliniano l’individuo non vale niente! Capisce che i lagher sono una cosa mostruosa e si sentirà più vicino ai detenuti che al sistema sovietico, era sempre più sbalordito dalle condizioni spaventose e disumane in cui versavano i detenuti, impegnati nel faticoso lavoro forzato della costruzione della ferrovia.
Tenere un simile diario era estremamente pericoloso all’epoca. Grazie a queste pagine possiamo renderci conto della vita che c’era in un gulag, delle condizioni e degli stati d’animo. Praticamente non solo i detenuti soffrivano e dovevano pagare una pena mostruosa, ma anche i militari sovietici che venivano arruolati per la sorveglianza diventavano automaticamente delle vittime di un regime totalitario.
Nel 1937 Ivan Cistjakov verrà arrestato. E’ davvero un miracolo come il suo diario non sia finito nelle mani delle spie sovietiche.
Grazie a questa sua testimonianza possiamo ancora di più capire la malvagità di un remige spaventoso, fanatico e disumano!
Quando da qualche parte sui social leggo commenti del tipo: “Deve andare in Siberia” o “Deve essere mandato ai lavori forzati in Siberia”, rabbrividisco! Non augurerei nemmeno al mio peggior nemico una mostruosità del genere. L’ignoranza di alcuni leoni da tastiera fa sempre capire quanta strada deve ancora fare l’umanita per farsi perdonare il passato!
C’è una parola in moldavo che in qualsiasi dizionario di un’altra lingua non si puo’ trovare: DOR.
Dor è un mondo, è uno stato d’animo, è una mancanza, un desiderio, un amore che vorresti che tornasse, lacrime, felicità, dolore, nostalgia, ricordi… quando usiamo questa parola in una frase o in un discorso, qualcosa dentro nel cuore si muove appena la si pronuncia. Dor, nella nostra cultura, dopo la parola amore, è la più usata nelle canzoni e nelle poesie.
Dor per me sono i miei nonni e i ricordi che ho di loro. I nonni materni li ho persi troppo presto, ma ricordo che ho sofferto e l’amore per loro è forte anche oggi. Quando torno a casa mi faccio sempre raccontare da mia mamma o dalle zie qualcosa su di loro. La vita non è stata buona con loro, un dolore grande li ha mangiati piano piano, anno dopo anno e alla fine le loro anime si sono lasciate andare. Oggi il loro dolore lo porto io nel mio cuore e mi sono promessa che finchè vivrò ne avrò memoria e rispetto.
Mi piace ricordare il nonno materno chiuso dentro il suo laboratorio di falegnameria, sempre indaffarato. Era un grande e rispettato falegname. Aveva radici gagauze e questa cosa mi rende orgogliosa, forse perchè mi piace pensare ed immaginare che i miei antenati fossero dei varolosi turchi con una storia ricca come leggo nei libri di storia. Il nonno odorava sempre di legno e quando andava in bicicletta attaccava delle mollette alle estremità dei pantaloni, così riusciva a pedalare meglio. La nonna aveva sempre il fazzoletto in testa e il grembiule attorno alla vita. Cucinava una minestra con fagioli e barbabietola di una bontà unica (la chiamavo sempre minestra rossa), succede a volte che nell’aria sento il profumo di quella minestra e mi piace pensare che è lei, la nonna, vicino a me.
I miei nonni paterni erano buoni e cari, amavo molto da piccola andare a trovarli. La nonna aveva un sorriso contaggioso, rideva sempre di gusto e parlava sempre dolcemente a noi nipoti. Amava molto la chiesa, conosceva ogni preghiera a memoria, e in chiesa aveva il suo posto assegnato, non si perdeva nessuna quaresima: con rispetto e devozione seguiva ogni regola. Con il nonno aveva un rapporto speciale, si vedeva che si amavano e rispettavano. Il nonno le parlava sempre con dolcezza. Lui per tutta la vita ha avuto un cavallo con la carrozza, e com’era orgoglioso ogni volta che ci saliva! Quando ho perso prima la nonna e poi dopo qualche anno il nonno, ero lontana milliaia di km. Ai funerali non sono potuta andare… Arriverà il momento in cui mi potrò mai perdonare questa cosa? Penso mai!
Mi fa sentire bene ricordare i nonni, mi fa sentire bene tenere sempre vive le mie radici. E in fondo la parola Dor mi fa sentire a casa.
Pensavo e ripensavo quale mia foto poter allegare a questo articolo.
Alla fine ho scelto questa foto scattata nel 2016 da qualche parte nei campi del mio paesino. Questo è un tipico pozzo moldavo, detto anche “cumpana”. I nonni paterni ne avevano uno uguale nel loro giardino, ero sempre attratta da quel pozzo: mi piaceva il rumore che faceva il secchio vuoto appena toccava l’acqua in fondo al pozzo e mi piaceva il movimento delle braccia che si doveva fare per tirare su il secchio pieno d’acqua.
Anche i nonni materni avevono un pozzo nel loro giardino, ma fatto in modo diverso. Vicino al pozzo c’era un albero di mela cotogna. Aveva un profumo incredibile quell’albero! Ma ancora più profumato era il succo che faceva la mia nonna con i suoi frutti!
Oggi vorrei parlarvi di un argomento molto speciale: l’iconografia. Quest’arte così unica e misteriosa è avvolta dalla preghiera, dalla meditazione e da un forte desiderio di sentire dentro di se una Benedizione. Nel 2016 ho parteciapato come spettatrice a un corso di iconografia, che si tiene tutti gli anni a Seriate nella villa Ambiveri. I corsi durano un paio di settimane, il corso è tenuto da docenti di massimo calibro. Infatti in questi anni ho avuto l’onore di conoscere due maestri russi di iconografia; ho potuto ammirare come riuscivano con le loro mani, con il pennello a dare vita a opere straordinarie. La prima cosa che ho imparato in quelle settimane è che un’icona non si pittura ma si scrive. C’è davvero qualcosa di speciale negli occhi di chi scrive un’icona?
Conosco Ornella, iconografa, da tanti anni; è grazie a lei che ho scoperto quest’arte meravigliosa. Spesso le faccio tante domande sull’iconografia ed è stata proprio lei a spingermi a partecipare in questi anni ad alcuni corsi di iconografia come spettatrice. Adesso sarà la seconda estate che i corsi saranno fermi (per il motivo che viviamo tutti in questi mesi), e sono sincera mi manca rivivere quelle emozioni. Entrare nell’aula e in silenzio osservare gli studenti (che sono persone di diverse età e origini, sia cattolici che ortodossi), fotografare le loro mani, ogni piccolo gesto che darà nascita a un’icona. Partecipare insieme alle messe con rito ortodosso che si tengono durante questi corsi al mattino. E poi la grande festa di fine corso, con una messa speciale e la benedizione di tutte le opere scritte durante il corso.
Uno di questi giorni ho chiesto ad Ornella:
– Cos’è per te l’iconografia, come nasce l’ispirazione per scrivere un’icona?
L’iconografia riguarda la mia stessa vita, il mio cammino, il mio stile di vita; il mio strumento di preghiera. Piano piano l’ho scoperta come una chiamata. E’ il mio modo “privilegiato” di stare con il Signore. E’ una grazia del Signore, perchè mi permette di stare più vicino a lui, al suo cuore. Quando scrivo un’icona è il tempo del silenzio, della meditazione, del conforto, dello studio perchè prima di iniziare un’icona c’è tutto uno studio dietro.La scrittura di un’icona ha vari passaggi proprio come i passaggi della nostra vita; è per questo che non la posso identificare come qualcosa di staccato da me: fa perte della mia stessa vita. L’ispirazione nasce nel silenzio, rimando il mio cuore, la mia mente al lavoro che devo eseguire.
– Quanto è importante la preghiera nel processo di scrittura di un’icona?
La preghiera è fondamentale: è il primo passo. L’aiuto dello Spirito Santo si chiede con la preghiera; mentre dipingo mi sento guidata dallo Spirito Santo: sono uno strumento nelle sue mani. Senza preghiera non esisterebbe nemmeno un’icona: se non c’è la preghiera nell’icona, nessuno allora ci pregherà: diventa un oggetto vuoto. Tante vole mi accorgo che anche quando non dipingo sto comunque scrivendo un’icona perchè la mia tensione è tutta rivolta al lavoro che devo eseguire. Anche nei momenti in cui non ho in mano il pennello, attraverso la preghiera io dipingo. Finito il lavoro di scrittura dell’icona, dopo che è stata verniciata, l’icona viene consegnata alla Chiesa per la benedizione. Dopo la benedizione l’icona diventa un sacramentale, l’icona così viene collocata in una chiesa per la devozione dei fedeli oppure in una casa per la preghiera personale. Proprio per questo la preghiera è fondamentale nell’iconografia: è il filo conduttore. Per questo mi piace pensare che l’icona non è completata nel momento in cui la consegno, ma è completata quando qualcuno ci prega davanti.
Avete mai letto un libro che vi ha fatto sentire parte della storia?
Oggi vorrei parlarvi di un libro straordinario, “Zuleika apre gli occhi” di Guzel’ Jachina. Un romanzo intenso, potente, pieno di dolore che lascia il lettore senza fiato. Un romanzo che racconta i fatti, l’orrore e tradizioni, una storia inventata ma inserita in un periodo storico veramente esistito.
La storia si svolge negli anni ’30, nel Tatarstan dove vive Zuleika, donna laboriosa che teme il marito. Subirà violenze e maltratamenti da parte di suo marito e per ogni sua violenza lei troverà una giustificazione perchè la fede e le tradizioni lo imponevano. Perchè crede in Allah e lo teme, perchè è stato lui a portarle via 4 figlie piccole.
Eranno gli anni dell’occupazione sovietica nel Tatarstan, tutti i terreni di proprietà venivano confiscati per essere trasformati in “kolhoz” (proprietà agricole collettive sovietiche); chi non voleva cedere i propri terreni e tutto quello che possedeva veniva ucciso, o deportato nella lontana e fredda Siberia, perchè i proprietari di terreni e di bestiami venivano considerati nemici della rivoluzione sovietica: i cosiddetti “kulak”.
Nel freddo febbraio del 1930 toccò anche al marito di Zuleika cedere tutti i propri averi. Lui si oppose e venne ucciso e a Zuleika toccò una sorte ancora più tragica e crudele: la deportazione in Siberia. Da questo punto in poi il lettore viene messo di fronte al calvario che subivano i deportati, l’autrice descrive nei minimi dettagli il lungo e orribile viaggio verso l’inferno. Nelle pagine di questo libro viene descritto per bene il fanatismo di questo regime, un fanatismo malato e ossessivo:
“…Dove venivano deportati i kulak? Dove il partito comanda!”
“…Si amano le grandi cause: la rivoluzione, il partito, il proprio Paese e non una donna…”.
“… Metteremo a faticare chi ha sfruttato il lavoro proletario e gli insegneremo come si vive da sovietici…”.
Il Tatarstan si colorava sempre di più del colore rosso come la bandiera sovietica. Tutti avevano paura, e nessuno veniva risparmiato.
Il viaggio di Zuleica verso la Siberia insieme agli altri deportati durò 6 mesi con il treno, durante i quali molti di essi morirono, quasi 398 persone.
Proprio in quel vagone malandato Zuleika farà nuove amicizie e scoprirà una luce dentro di sè che le darà speranza, ma anche timore.
Proprio a partire da questo viaggio entrerà in scena un altro personaggio principale con un’anima turbolenta: il comandante Ignatov.
Troveremo questi due personaggi, Zuleika e Ignatov, per tutto il romanzo a combattere non solo la lotta per la sopravvivenza nella taiga Siberiana ma anche a combattere le loro lotte interne, i peccati interni da scontare, demoni interni che mangeranno piano piano le loro anime. Due personaggi diversi ma molto simili, attratti uno verso l’altro da una calamita invisibile che non raggiungeranno mai nè la pace interna, nè quella esteriore. E’ proprio questo il punto di forza del romanzo, è proprio questo che il lettore vorrà capire, ma non ci riuscirà.
Nel libro vengono descritti in modo eccezionale i luoghi della Siberia. Non sono mai stata in Siberia, ma ho sentito anche io il freddo siberiano addossso mentre leggevo, ho sentito la fame e la disperazione dei deportati. Ho assistito, leggendo, all’orrore della vita dei deportati in Siberia, quel posto ai confini del mondo. Dal nulla nella taiga Siberiana hanno costruito un villaggio e non avevano diritto a possedere nulla, nemmeno la propria anima. La propaganda sovietica esisteva anche lì, venivano spiati perchè nessuno doveva parlare male del governo sovietico.
Ho letto in un fiato questo romanzo, che alla fine è una storia nella storia, quasi una testimonianza di un orrore realmente esistito.
Posso dire che questo romanzo è un racconto di una vita tragica, ma con piccoli raggi di sole che raggiungono anche la lontana e fredda taiga Siberiana.
Oggi voglio aprire una confettura, una di quelle che è sempre in fondo alla dispensa e non si ha mai il corraggio di aprire perchè sappiamo che ci farà stare male. Ma io la apro comunque e piano piano mi riempirò di corraggio per affrontare tutte le sue parole.
Mi è capitato in questi ultimi giorni di pensare alla paura. Che cos’è la paura per ognuno di noi? Anche se siamo persone adulte, ognuno vive la sua vita nel miglior modo possibile, ma arriva la notte e prima di chiudere gli occhi pensiamo… è proprio questo che ci frega! L’uomo pensa, si intreccia nei pensieri più profondi e si rende conto che dietro ad un angolo nascosto della sua anima c’è la paura, sta lì zitta in silenzio e aspetta. Aspetta una nostra mossa sbagliata, un nostro pensiero, aspetta la giornata più dura per noi, per uscire fuori e colpire. Ma poi la notte passa e di giorno quasi non ci ricordiamo più dei pensieri fatti la notte prima.
Abbiamo paura di tante cose. Ci sono paure bianche e altre nere. Quelle bianche sono innocue, ti fanno quasi sorridere quando si fanno vedere davanti agli occhi: paura al mattino di svegliare la persona cara con un rumore forte, paura che la pizza non lieviti bene o paura che il proprio bimbo non riesca mai ad imparare ad andare in bici senza le rotelle, paura di non trovare in un negozio una cosa che si desidera tanto, paura del primo bacio, paura di un ago…
E poi un giorno ti svegli e vedi il sole fuori, i bambini che sorridono, la TV che trasmette il solito film, l’aroma del caffè nell’aria. Tutto sembra normale, è la quotidianità e la vivi. Poi arriva un sms, una telefonata, tu rispondi ed ecco… la paura ha trovato il momento giusto per saltare fuori dal suo angolo segreto ed invadere ogni parte del tuo corpo. E tutta quella quotidianità che fino ad un minuto fà ti sembrava prevedibile adesso è lontana anni luce. Anche se siamo persone adulte, una brutta notizia ci fa paura. Ci mette in una situazione dove il corpo non risponde alla ragione. Questa paura ha il colore nero, il nero che invade gli occhi, ti fa tremare, la bocca non riesce a dire nemmeno una parola.
La debolezza dell’attimo ci fa capire quanto siamo fragili: possiamo avere case belle, possiamo avere un bel lavoro, possiamo essere i più forti del mondo ma quando la paura per una persona cara ti imprigiona l’anima diventiamo piccoli, diventiamo dei bambini che hanno bisogno della coccola della mamma prima di addormentarsi.
Ho incontrato persone forti sulla mia strada e mi sono sempre chiesta in quale angolo della loro casa riescono a nascondere il viso tra le mani e far uscire fuori la fragilità? Perchè la paura ha un nemico: le lacrime. Far uscire le lacrime che bagnano il viso e lavano l’anima fa stare bene. Alla fine del pianto la paura perde potenza, piano piano si riesce a trovare la ragione, si cominciano a trovare risposte e soluzioni. E nel soccorso arriva la fede (in qualsisasi forma essa sia), arriva e ci salva, ci ridà speranza!